Attualità sul disturbo bipolare

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 14 novembre 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVE AGGIORNAMENTO]

 

Un journal club dei gruppi di studio di psichiatria della Società Nazionale di Neuroscienze ha presentato ai soci, lo scorso venerdì a Firenze, alcuni temi di attualità nella ricerca sul disturbo bipolare.

 

L’incontro è stato preceduto da una breve introduzione della dottoressa Giovanna Rezzoni sull’attuale concezione nosografica e diagnostica del disturbo bipolare. In particolare, la psichiatra ha ricordato che nel DSM-5 la categoria bipolar and related disorders è stata posta tra i capitoli dedicati alle psicosi dello spettro della schizofrenia e quelli dedicati ai disturbi depressivi, perché considerata come un “ponte fra le due classi diagnostiche in termini di sintomatologia, storia familiare e genetica”. Ha poi notato che la categoria del disturbo bipolare I sostanzialmente corrisponde alla psicosi maniaco depressiva o psicosi affettiva del Novecento, mentre la categoria del disturbo bipolare II è stata ampiamente rivista e non più considerata una forma meno grave della prima; per le altre diagnosi, inclusa quella ciclotimia, ha riferito tutti i dubbi, le perplessità e le controversie espresse in seno alla comunità psichiatrica internazionale.

La dottoressa Ludovica R. Poggi, dopo un sintetico stato dell’arte sull’uso del litio e degli altri farmaci tradizionalmente prescritti nella fase di eccitazione maniacale del disturbo bipolare, ha approfondito le questioni di maggior rilievo sull’impiego degli antidepressivi nel trattamento della fase che si accompagna ad un basso tono dell’umore.

Negli ultimi anni, sporadici e non sistematici reports relativi a singoli o pochi casi di pazienti bipolari trattati con antidepressivi, hanno riferito un peggioramento della sindrome nella sua espressione clinica e nel suo andamento periodico. La dottoressa Poggi ha discusso questo problema sulla base di due recenti studi; le osservazioni principali sono qui di seguito esposte in sintesi.

In tutto il mondo, gli antidepressivi, e in particolare gli SSRI, sono estesamente prescritti nella depressione bipolare, nonostante le scarse evidenze della loro efficacia e significative preoccupazioni espresse da psichiatri di realtà culturali e geografiche diverse circa il rischio dell’interferenza di queste molecole con i meccanismi non ancora noti del disturbo. In particolare, si teme che tali farmaci possano precipitare una conversione affettiva acuta in mania/ipomania e che la somministrazione a lungo termine possa portare ad instabilità dell’umore e dei processi correlati[1]. Il trattamento farmacologico della depressione bipolare ha perciò generato un dibattito al quale hanno cercato di trovare soluzione due studi recenti, che hanno fornito nuove evidenze.

Il primo dei due studi, condotto da El-Mallakh e colleghi, ha rivelato che l’assunzione di antidepressivi per periodi di tempo protratti in pazienti che soffrono di forme di disturbo bipolare a ciclicità frequente, causa un aumento di ben tre volte del numero di episodi di disturbi dell’umore clinicamente evidenti nell’arco di un anno, come è stato rilevato dal follow-up previsto dal protocollo[2]. Tale dato, senza alcun dubbio, supporta la tesi secondo cui gli antidepressivi, al di là di una temporanea riduzione dei sintomi – che in genere richiede varie settimane per prodursi e non è frequente con gli SSRI nei pazienti di sesso maschile – producono più danni che benefici e, pertanto, non se ne giustifica l’indicazione. Il valore dei risultati, e conseguentemente di questa conclusione, deriva anche dal fatto che lo studio di El-Mallakh e colleghi è il primo ad esaminare gli effetti dei farmaci di attuale impiego nel contesto di un trial clinico randomizzato[3].

Il secondo studio ha fornito dati discordanti dal primo, dimostrando che pazienti affetti da disturbo bipolare tipo II (DSM) in monoterapia antidepressiva continuata, sembrano giovarsi di una prevenzione secondaria nei confronti del ripetersi delle manifestazioni cliniche. Inoltre, gli autori dello studio hanno valutato il rischio di conversione in una forma di mania/ipomania, trovandolo piuttosto basso. Lo studio, condotto da Amsterdam e colleghi[4], aveva la struttura della valutazione farmaco nuovo/contro farmaco standard, ma il farmaco di riferimento era uno “stabilizzante dell’umore”, il cui impiego e la cui efficacia sono a loro volta oggetto di valutazione e dibattito.

La dottoressa Poggi ha osservato che i risultati dei due studi, presi insieme, non risolvono il problema della prescrizione degli antidepressivi, non solo e non tanto per le conclusioni non convergenti, perché in proposito si può affermare che la dimostrazione degli effetti negativi fornita dal primo studio fa sicuramente pendere la bilancia verso una prudente astensione, ma perché si possono sollevare critiche ad entrambi gli studi in rapporto alla significatività dei risultati. Infatti, in entrambi i casi, le dimensioni del campione sono ristrette e il disegno sperimentale presenta limiti significativi. Oltre alla correzione di questi difetti, la dottoressa Poggi suggerisce anche questa possibilità: “Sarebbe interessante analizzare in dettaglio i campioni dei due studi e formulare delle ipotesi relative alle cause che hanno portato ai differenti risultati e, successivamente, sottoporre a verifica sperimentale tali ipotesi”. Concludendo, la relatrice, oltre a confermare la necessità di attendere ulteriori sviluppi della ricerca, ha sottolineato che allo stato attuale delle conoscenze si può senza dubbio affermare che la fisiopatologia degli episodi depressivi in corso di disturbo bipolare è differente da quella della depressione maggiore e delle altre forme più frequenti di depressione, e che lo stato depressivo del paziente bipolare interviene in un cervello nel quale sono presenti, sia pure in latenza, gli elementi caratterizzanti la disfunzione all’origine delle fasi di eccitazione.

Nel journal club si è poi trattato lo stato attuale della ricerca genetica sulla predisposizione.

Anche se sono scoraggiantemente numerosi i geni associati al disturbo bipolare, al punto che ormai è ben difficile sostenere una unitarietà genetica della sindrome e della predisposizione, per alcuni loci l’associazione sembra essere più stretta e la base sperimentale che la dimostra più convincente. Un passo importante per la ricerca è dato dalla definizione del rapporto fra l’alterazione molecolare che deriva dall’allele di rischio e il funzionamento dei circuiti che si ritiene abbiano importanza come base neurobiologica dei processi psichici. Un lavoro che fornisce prove sperimentali di un tale rapporto è stato il principale oggetto della relazione tenuta dalla professoressa Diane Richmond e qui di seguito riassunta.

Una forte associazione col disturbo bipolare è stata rilevata e confermata per il polimorfismo rs10994336 e rs9804190 dei loci di ANK3 (Ankyrin 3), anche se fino ad ora il loro potenziale effetto patogenetico sui circuiti rilevanti per la sindrome psicopatologica non è stato accertato. Delvecchio, Dima e Frangou hanno indagato gli effetti del polimorfismo rs10994336 e rs9804190 sul circuito neurale della memoria di funzionamento (working memory, WM, resa spesso con “memoria di lavoro”). L’indagine si è basata sull’esame in risonanza magnetica funzionale (fMRI) del cervello nel corso dell’esecuzione di un compito standard (N-back task) di tre gruppi di volontari posti a confronto[5].

1) Il primo gruppo era costituito da 41 pazienti diagnosticati di disturbo bipolare, in condizioni di eutimia al momento dell’esame; 2) il secondo gruppo era composto da 25 parenti di primo grado in buona salute psichica; 3) il terzo gruppo (fungente da gruppo di controllo normale) era formato da 46 persone non collegate in alcun modo con quelle dei due gruppi precedenti ed assolutamente prive nell’anamnesi personale e familiare di disturbi psicopatologici.

Nelle persone in buona salute psichica e prive di rapporti di parentela con gli affetti da disturbo bipolare, l’allele di rischio rs10994336 era associato con ridotta attivazione delle componenti corticali visive ventrali del circuito della WM, mentre l’allele di rischio rs9804190 era associato con una iperattivazione inefficiente della porzione della base neurale della WM costituita dalla corteccia cerebrale prefrontale. Nei pazienti e nei loro parenti in buona salute, gli alleli di rischio ad entrambi i loci erano associati ad iperattivazione della parte ventrale della corteccia cingolata anteriore. In più, i portatori di rs9804190 ammalati di disturbo bipolare, hanno fatto registrare una iperattivazione anormale all’interno della regione della corteccia cingolata posteriore.

La professoressa Richmond ha commentato osservando che queste immagini funzionali in risonanza magnetica dell’influenza dei geni di rischio sull’attività di sistemi neuronici rilevanti per la funzione psichica di base attuale e per l’espressione di alcune importanti manifestazioni sintomatologiche che si accompagnano ai disturbi bipolari, sono fra le poche documentazioni di un possibile elemento patogenetico che legherebbe la causa genetica ad una fisiopatologia di rilievo psichiatrico. Poi, concludendo, ha notato che lo studio fornisce nuove acquisizioni sulle possibili ragioni dell’aumentato rischio legato a variazioni alleliche del gene di ANK3, ma la via che porterà a definire l’eziopatogenesi di questi disturbi e a distinguere le cause endogene (suscettibilità, predisposizione, stile funzionale) da quelle esogene (esperienze in forma di apprendimenti) è ancora molto lunga.

Il professore Giovanni Rossi, dopo aver introdotto il tema dei rapporti del disturbo bipolare con la patologia internistica, ha presentato un caso clinico descritto da Kadilli, Colicchio ed altri colleghi dell’Istituto di Psichiatria e dell’Istituto di Neurologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Si tratta di un’associazione mai rilevata in precedenza: il disturbo bipolare in un paziente affetto da pseudoipoparatiroidismo di tipo 1A[6].

Nel 1942 Albright e colleghi descrissero tre casi di una particolare sindrome caratterizzata da deficit degli effetti prodotti dal paratormone, ipotizzando una congenita insensibilità dell’organo effettore (in particolare il tubulo renale) all’ormone endogeno normalmente secreto. Proposero perciò la denominazione di pseudoipoparatiroidismo, in seguito rifiutata da altri studiosi che, non condividendo l’ipotesi patogenetica, suggerirono la definizione di distrofia (ereditaria) di Albright[7]. Lo pseudoipoparatiroidismo è una sindrome clinica molto rara, con una prevalenza di 7,2 per milione di abitanti (circa 1/140000), associata primariamente alla resistenza periferica all’ormone delle paratiroidi, con la conseguenza di un basso livello di calcio sierico ed un alto livello di fosfati, ma con un tasso di ormone paratiroideo circolante elevato proporzionalmente alla riduzione del calcio. La patogenesi è attualmente ricondotta a disfunzione delle proteine G, in particolare della subunità Gs alfa. Il tipo 1A presenta il caratteristico aspetto fenotipico descritto nella semeiotica dell’osteodistrofia ereditaria di Albright, che include la congenita brevità del IV e V metacarpale e la facies lunaris, e fa registrare una costante resistenza al TSH. Il gene responsabile è GNAS1 e la modalità di trasmissione sembra compatibile con una eredità mendeliana autosomica dominante[8].

Riprendendo la discussione di Kalilli e colleghi, il professore Rossi ha discusso i meccanismi fisiopatologici potenziali di questa associazione, fra cui l’ipoattivazione della proteinchinasi A, i ruoli del paratormone, dell’ipocalcemia, dell’attivazione della proteinchinasi K e del deficit di vitamina D. Il dato clinico rilevante è che la correzione dei deficit di calcio e vitamina D ha portato ad una riduzione dei sintomi del disturbo e alla possibilità di ridurre le dosi degli psicofarmaci. Rossi così ha concluso: “La possibilità più generale che elementi tanto aspecifici possano incidere su una delle maggiori sindromi psichiatriche è estremamente seducente”.

Terminano qui le relazioni principali, che sono state seguite da altre esposizioni sintetiche di recenti studi, dopo delle quali la dottoressa Rezzoni ha dato appuntamento ad una prossima occasione di aggiornamento.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle “note” di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-14 novembre 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Gin S. Malhi, Antidepressants in bipolar depression: yes, no, maybe? Evidence-Based Mental Health 18, 100-102, 2015. Malhi proviene dall’Academic Department of Psychiatry, Kolling Institute, St Leonards, New South Wales, Australia.

[2] El-Mallakh R. S., et al. Antidepressants worsen rapid-cycling course in bipolar depression: a STEP-BD randomized clinical trial. Journal of Affective Disorders 184: 318-321, 2015.

[3] Lo studio, indipendente dagli interessi delle case farmaceutiche, è parte di un articolato programma per il miglioramento della terapia del disturbo bipolare: Systematic Treatment Enhancement Programme for Bipolar Disorder (STEP-BD).

[4] Amsterdam J. D., et al. Safety and effectiveness of continuation antidepressant versus mood stabilizer monotherapy for release-prevention of bipolar depression: a randomized, double-blind, parallel-group, prospective study. Journal of Affective Disorders 185: 31-37, 2015.

[5] Delvecchio G., et al., The effect of ANK3 bipolar-risk polymorphisms on the working memory circuitry differs between loci and according to risk-status for bipolar disorder. Am J Med Genet B Neuropsychiatr Genet. 168B (3): 188-196, 2015.

[6] Kadilli I., et al. Clinical Insights by the presence of bipolar disorder in pseudohypoparathyroidism type 1A. General Hospital Psychiatry 37 (5): 497.e3-5, 2015.

[7] Nel 1952, dieci anni dopo, Albright e colleghi descrissero una seconda sindrome con le stesse manifestazioni somatiche, scheletriche e nervose dello pseudoipoparatiroidismo, ma prive delle alterazioni del ricambio calcio/fosforo e della refrattarietà dell’organo bersaglio al paratormone; pertanto suggerirono di chiamarla pseudo-pseudoipoparatiroidismo.

[8] OMIM, “Online Mendelian Inheritance in Man” 103580.